Enrico Biella

Ritratto di Enrico Biella
Diploma d'onore del ministero della guerra
Ceritificato di merito del supremo comando alleato

LA MEDAGLIA NEL CASSETTO

Il belluschese Enrico Biella, Sergente Maggiore per le truppe alleate, i suoi ricordi silenziosi della Guerra.


«Abbi Fede». Così porta inciso la medaglia, appuntata nel 1945 al petto del belluschese Enrico Biella, Sergente Maggiore sul Gruppo di Combattimento «Mantova» in sostegno alle truppe alleate. Non fece mai vanto di quell’onorificenza; lasciava anzi ci giocasse la figlia Tina che, su invito del Comune, scuote ora dalla polvere le fotografie scattate al papà in armi tra il 1938 e il 1945.


Biella o Colombo: dei due cognomi più frequenti a Cascina Cantone, Enrico riceve il primo, nascendoci il 25 ottobre 1918. Ventenne, lascia il mestiere di fabbro per vestire la divisa di Leva. Anziché congedarlo, nel 1939, lo armano all’occupazione dell’Albania. Da questo fronte, l’esercito italiano volge il mirino alla Grecia: qui il soldato Biella passa 75 giorni scalzo in una buca, coi piedi avvolti nei ritagli del cappotto per evitare il gelo. Dalla neve alla sabbia, viene destinato in ricognizione sul porto libico di Tobruch, dove contrae la malaria. Con questa diagnosi, è ricoverato in rimpatrio a Baggio, scampando la partenza per la Russia. Dimesso, raggiunge in Puglia la 104° Divisione Fanteria «Mantova», addetto all’armeria. «Ecco l’arma che mi difenderà nei momenti cattivi» scrive Enrico sul retro di una delle foto, che invia alla promessa sposa Giacomina Magni (1919-2010); anche grazie a un parente postino. Negli scatti, il soldato Biella è composto come la sua calligrafia. Enrico merita davvero questo aggettivo che, dal latino «compos-tui», significa «padrone di te stesso».


Si lava di buon’ora, al fronte, anche se è inverno: per farlo un mattino esce dalla tenda dove, poco dopo, una bomba uccide nel sonno i suoi commilitoni. Mentre la guerra gli scava attorno tombe, Biella scrive lettere d’amore alla fidanzata. Fisica e mentale, lo sorregge una compostezza, che manterrà anche da civile. Prima che rincasi dal turno in Pirelli, verso le 18.30, moglie e figlia smettono il grembiule da lavoro: indossano un abito più decoroso, perché sanno quanto piaccia a Enrico trovarle in ordine; «Va’ che bèla sciura!» sorride lui a Giacomina.


L’8 settembre 1943, il proclama dell’Armistizio raggiunge Enrico a Brindisi, dove i Tedeschi gli requisiscono il mortaio che tiene in custodia. Per recuperarlo, si espone al tiro dei cecchini, aprendo uno scavo verso i reticolati della trincea nazista: i compagni d’arme lo aiutano a riportare «il suo cannoncino». Così chiama il pezzo d’artiglieria, Enrico, che per l’operazione riceve l’encomio di Guido Bologna. Questi è al comando del Gruppo di Combattimento «Mantova», in cui milita per scelta anche l’ormai Sergente Maggiore Biella, affiancando le truppe alleate nella Battaglia di Cassino (1944). Enrico era partito da casa per combattere e ora combatte per tornare a casa: segue gli Alleati che risalgono la penisola e quasi gli sembra siano loro a seguirlo, mentre conta i passi verso Bellusco.


Giallo e verde. Il 25 aprile 1945, sotto i colori del Gruppo «Mantova», Biella riceve insieme al diploma d’onore la medaglia con cui lasciava giocare la figlia. Non incornicia nemmeno il certificato di merito, firmatogli cinque mesi più tardi da Harold Rupert Alexander, Comandante Supremo delle Forze Alleate nel Mediterraneo: «for his contribution to the cause of Freedom»; per il suo contributo alla causa della Libertà. Prima in Inglese e poi in Italiano, i Superiori invitano il Sergente Maggiore a intraprendere la carriera militare. Enrico rifiuta compostamente. Ritrovare Giacomina a Bellusco è uno stupore di occhi spalancati, dopo tutte quelle fotografie spedite in bianco e nero. Il generale Guido Bologna gli consente di vendere un camion di riso in paese, alla pesa pubblica di piazza Alessandro Fumagalli: raduna così 17mila Lire, spese per festeggiare le nozze con la Magni, il 10 novembre 1945.


Sarebbe piaciuto a Biella il dono d’essere invisibile. Quando presiede la «Cooperativa del Popolo Cantonese», con Virgilio Colombo segretario, assiste in piedi alle briscole dei soci; senza nemmeno sbottonarsi la giacca. A teatro, lascia che la moglie sieda in prima fila, salvo cercare tra le ultime il proprio posto. Enrico riesce riservato dove Giacomina usa esuberanza: come se danzassero, lei avanza il passo che l’altro ritira.


Mentre gli anni cadono dal calendario, Biella tiene sul comodino il libro «I due Risorgimenti» e si commuove all’Inno d’Italia; canta in bicicletta, presiede la cooperativa di Cascina Cantone, raggiunge la pensione alla Pirelli; azzittisce il pettegolezzo dicendo: «I cà hinn faa de sass, ogni sass g’ha ‘l sò fracass» (le case sono fatte di sassi e hanno tutte i loro guai). Ricordava in silenzio gli anni della guerra, Enrico; finché, il 23 gennaio 1997, non divenne anche lui qualcuno di cui è bello ricordarsi.


Cristian Bonomi
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